Già nel 2021 tra i brand di cui i consumatori si fidavano di più c’erano quelli che avevano preso posizione rispetto a grandi temi come il cambiamento climatico, l’inquinamento, il rispetto dei diritti, inclusione, e diversity. Sempre più in futuro il brand activism e il fatto che CEO e altre figure chiave all’interno dell’azienda sostengano pubblicamente cause di forte rilevanza sociale contribuirà costruire un fidelizzazione della clientela.
Secondo alcuni studi i brand che più cresceranno quest’anno saranno quelli disposti a farsi fuori da una competizione basata esclusivamente sul prezzo o sulla qualità dei prodotti e dei servizi.
Altro grande tema con cui i brand hanno già avuto modo di familiarizzare in questi anni sono le identità intersezionali, cioè sempre più difficilmente definibili secondo categorie standard, delle persone a cui si rivolgono. Quando scelgono un brand i consumatori, soprattutto i giovani millennials e i giovanissimi della generazione z , fanno molta attenzione a quanto lo stesso sia rispettoso della diversità.
Richiamare attorno a sé coorti di talenti e creator professionisti potrà servire all’azienda sia per ideare nuovi prodotti o servizi o individuare nuove nicchie di mercato in cui potersi espandere, sia per comunicare e comunicarsi al meglio.
E quando poi il brand scende in campo, lì avviene il passaggio all’azione vera e propria, il cosiddetto brand activism. Qualche esempio? Nike decide di mostrare sui propri manifesti il viso in primo piano di Colin Kaepernick, il giocatore professionista di football americano discriminato e sospeso a causa delle sue posizioni politiche. Lush Cosmetics, Ben & Jerry’s e Patagonia scelgono di chiudere i loro negozi al dettaglio per aderire agli scioperi contro i cambiamenti climatici promossi da Greta Thunberg. E via dicendo molti altri
Il brand activism diventa la chiara volontà dell’azienda di assumersi responsabilità in ambito sociale e di partecipare al raggiungimento del bene comune.